Gianantonio Abate
Siamo nel 1983. L’artista inizia, giovanissimo, ad esporre fondando, assieme ad altri personaggi, il gruppo dei nuovi futuristi. I primi lavori intitolati ” pittografie”, sono strutture ambientali dove il segno grafico è l’elemento che definisce l’opera. Questi lavori emanano una sorta di energia dovuta ad una grafica vorticosa, incalzante e dinamica di memoria futurista ma, al contrario del pensiero futurista, non c’è una fede positiva nella tecnica, nel progresso, ma una crisi del segno, una destrutturazione e frammentazione dell’immagine.
Dopo questi esordi, sviluppa tecniche artigianali più complesse, legni curvati che aggrediscono lo spazio in una zona compresa fra il bidimensionale e il tridimensionale. Ecco apparire nelle opere di questo periodo, le materie plastiche, più manipolabili, leggere e contemporanee. Nascono i “trademarks”, marchi di fabbrica, una specie di logotipi, astrattamente destrutturati, svuotati, frammentati, illeggibili privi di identità.
Nel periodo successivo i marchi lasciano il posto a nuove icone che si sgretolano, si piegano, si sciolgono. Materia contorta, scaldata e lavorata. ” Tagliatelle della fogna” è il titolo emblematico di un’opera di questo periodo. Nel 1987 presenta alla galleria Murnik di Milano un lavoro ambientale sui codici stradali, che si riversa nella strada, ribaltando il senso logico dei codici, con un uso calibrato di elementi paradossali.
Dal 1988 appaiono nuovi elementi. Non cambiano i presupposti creativi: frammentazione, sgretolamento della forma e delle identità, decostruzione, ansia e claustrofobia, ma entrano in gioco oggetti di consumo, fotografie, campionamenti pittorici. Il tutto all’interno di strutture gonfie, complesse, ipertrofiche. Tentativi improbabili di dare una forma organizzata al caos. Il senso di disagio permane, anzi, spesso si amplifica, l’identità delle cose, ancora una volta, naufraga. Questa serie verrà presentata alla Biennale di Venezia nella sezione “Aperto 1990” dal titolo “La gita di mezzanotte” .
Le opere dei primi anni novanta, benchè mantengano le caratteristiche poetiche e concettuali del decennio precedente, sembrano asciugarsi, sintetizzarsi, ordine e disordine sembrano confluire in strutture più definite adagiandosi in strutture tridimensionali / bidimensionali con forti valenze architettoniche e spaziali. Siamo nel 1991 e l’artista presenta questi lavori alla Torre del Lebbroso ad Aosta. L’effetto visivo dell’installazione “Macchina per la fabbricazione del clima” è di un’opera che modifica lo spazio, lo ristruttura, ma nello stesso tempo, emergono microdettagli infinitesimali che necessitano di sguardi attenti , localizzati, vicini.
Nel 1993 l’artista presenta alla galleria Ierimonti di Milano una installazione dal titolo ” I racconti dello stare insieme” . La galleria è invasa da un puzzle visivo ridondante, ansimante, ossessivo. Micromondi che si incontrano, si scontrano, attraverso paradossi linguistici e visuali, ricombinando immagini ed oggetti già esistenti. In queste opere, compare, per la prima volta, una storia, un racconto minimo di ispirazione letteraria, che restituisce il molteplice mormorio del mondo. Un racconto fatto di contatti, di pettegolezzi di dicerie e di incontri casuali fra le immagini. In altre parole i segni del sapere si sgretolano e le identità delle immagini si liberano, scorrono, si mescolano donando a ciascuna di esse la possibilità di ridare forma a se stessa.
Nel 1996 introduce nei lavori immagini di sintesi, computerizzate. Cambiano le tecnologie, ma l’ansia di fondo rimane, i disagi pure, anzi in alcuni lavori sembrano amplificarsi. Nel 1999 l’artista presenta all’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona un grande lavoro dal titolo “Dalla notte al giorno”, una sequenza di 11 grandi immagini tridimensionali, strutturate come pagine di un libro. Una nuvola sempre uguale a se stessa, che ha come sfondo un cielo, si ripete per 11 volte. Cambia solamente il colore delle immagini, in corrispondenza delle ore del giorno, dal buio della notte al chiaro del mezzogiorno. E cambiano le microstorie all’interno delle varie nuvole. Ogni immagine è un frame, una istantanea di flash percettivi, di frammenti ricomposti.
Dall’anno 2000 sino al 2006 i lavori sono quadri da appendere alle pareti o meglio sembrano chat-line visuali dove è possibile incontrare di tutto e di più, ma senza conoscere nessuno, smontando e rimontando irrispettosamente quell’universo di immagini che dovrebbe costituire il nostro riferimento culturale. Tutto si confonde poiché proprio la confusione è la condizione primaria della nostra epoca. Nelle opere di questo periodo le storie prendendo in prestito da vecchie pellicole star, caratteristiche, spezzoni d’altre vicende, drammi già vissuti, miscelando il tutto in un ingranaggio noir o giallo. Le immagini vengono cancellate e ricomposte. Queste opere sono comiche, drammatiche, tristi, scanzonate ma anche depresse, misteriose e ansiotiche, contaminate e tele-trasportate da un piano all’altro.
Sempre nella prima metà degli anni 2000 vengono progettate e realizzate una serie di lavori bidimensionali di grandi dimensioni sul tema dell’abitare precario. Le pareti domestiche si aprono e il mondo esterno entra nella casa. La vita intima e privata viene catapultata all’esterno e viceversa. Come sempre il caos di questo mondo multiforme cerca di organizzarsi in un equilibrio instabile.
Nella seconda metà degli anni 2000 gli interessi si spostano verso materiali tradizionali come la pittura e la scultura che convivono per un certo periodo in un unico manufatto. I temi ed i meccanismi narrativi di questa evoluzione rimangono inizialmente gli stessi, per poi evolversi e adattarsi al linguaggio universale della pittura. Le ridondanze e le turbolenze permarranno anche se addolcite e armonizzate attraverso modalità più intime e delicate all’interno del rapporto conflittuale tra ordine e disordine. Progressivamente verrà recuperato il fare lento ed alchemico di una manualità pittorica che sottende ad un’arte precisa e solare, positiva e costruttiva, un’arte che si pone come rimedio al senso di finitudine che ci accompagna da sempre, e che cerca di ritrovare l’unità di coscienza originaria, dalla quale l’essere umano ha origine, e dalla quale si è allontanato, separando le pulsioni istintive da quelle razionali, come rileva Nicola Vitale nelle sue riflessioni teoriche sulla “solarità” nella pittura contemporanea.